Nel 1988 lasciai il CEDE e Villa Falconieri per tornare all’insegnamento di matematica all’Istituto Tecnico Industriale Fermi di Roma. Dopo l’entusiasmo di cui ho scritto nelle puntate precedenti di questo racconto questa decisione può meravigliare.
L’isolamento della Villa
Il comando in servizio presso il CEDE come anche nella rete degli IRRSAE, prevedeva un distacco di 5 anni rinnovabile senza concorso per altri 5, un numero di anni certamente congruo se si vince a 55 anni e si conclude così la carriera, un numero di anni eccessivo se si comincia troppo giovani. Era il mio caso.
I primi cinque anni erano trascorsi velocemente, avevo completato il dottorato, collaborato a molte ricerche che i miei colleghi avevano attivato, avevo appreso molte cose che all’inizio non conoscevo. Il Centro funzionava molto bene ma proprio la Villa costituiva forse l’emblema di una difficoltà: il taglio elitario, quasi aristocratico del nostro presidente, la separatezza, l’unicità della sede ci rendeva un corpo separato rispetto alla rete degli IRRSAE e della BDP. La stessa distanza si percepiva rispetto alle strutture burocratiche del Ministero di Viale Trastevere, rispetto alla stessa accademia universitaria. La scuola militante, pur presentissima nelle attività di ricerca dell’ente, era lontanissima e si toccava con mano il pregiudizio dei colleghi i quali se ti presentavi come comandato CEDE ti guardavano come un imboscato nullafacente o un privilegiato raccomandato.
Insomma eravamo in un’isola felice che però rischiava di diventare una terra di mezzo di nessuno che le opposte fazioni non intendevano esplorare.
Intendiamoci, non era esattamente così, i miei colleghi di allora che mi leggono protesteranno; diciamo allora che questa era la mia percezione prevalente della situazione.
In effetti la visione visalberghiana della scuola e della società era solitaria e forse unica: profondamente laica e democratica era rispettosa dei cattolici, sicuramente liberale e democratica era rispettosa dei comunisti, profondamente democratica era minoritaria nel partito socialista in cui ormai Craxi spadroneggiava e Visalberghi continuava a militare. L’approccio scientifico empirista all’innovazione della scuola era tacciato di positivismo razionalista dall’area cattolica che rivendicava il primato dello spirito e della persona come chiave di lettura dell’educazione, era considerato come una eccessiva moderazione filooccidentale e filoamericana da parte degli intellettuali dell’area comunista. Insomma il quadro politico stava mutando rapidamente e la scelta del ’79 che aveva portato ad assegnare il CEDE all’area socialista e la BDP all’area cattolica si stava trasformando da scelta pluralista a lottizzazione che da lì a poco sarebbe esplosa nel paese come una forma di malgoverno inaccettabile.
L’approccio scientifico ai problemi dell’educazione era già allora una scelta non neutra, non indolore. Toccai con mano questa resistenza nella fase della diffusione dei risultati dell’indagine VAMIO in incontri in vari parti del paese con gruppi di insegnanti e di scuole. Sempre, nel dibattito che avveniva dopo le mie slide, c’erano almeno due interventi, l’uno per criticare qualche aspetto di metodo sulla rilevazione e sul test l’altro per ricordare che ‘ben altro’ si doveva fare per poter conoscere ciò che accadeva nell’apprendimento.
Così alla fine del quinquennio andai a preannunciare l’intenzione di non chiedere il rinnovo. Visalberghi, in genere cortese e garbato mostrò un chiaro disappunto quasi che il mio fosse un tradimento. Con un certo distacco e un po’ di durezza mi disse che il lavoro sul VAMIO non era finito, che dovevo curare anche la ricaduta didattica: il test poteva diventare uno strumento per la diagnosi iniziale all’ingresso della secondaria superiore e che ci si doveva lavorare, un altro anno era necessario.
Così nel luglio dell’87 pubblicai sul notiziario dell’Unione matematica italiana l’invito a partecipare alla sperimentazione dell’uso del VAMIO come test d’ingresso per prime classi e nel giugno dell’88 pubblicai il rapporto finale che raccoglieva la tesi di dottorato, la sperimentazione come test diagnostico di ingresso, copia del test, il programma per l’elaborazione dei risultati.
Visalberghi da grande maestro mi congedò con garbo pregandomi di compilare un questionario che stava curando per conto del Ministero in vista di una conferenza sulla scuola che ci sarebbe stata nel 90 nella quale si sarebbe parlato di autonomia scolastica.
Insomma confermai la mia scelta di tornare nei ranghi visto che l’ente, nonostante il pregio del lavoro che vi si svolgeva, rimaneva, come lo era villa Falconieri, isolato in un bosco, in alto con una bella vista sulla valle illuminata e brulicante di Roma. Restare a lavorare per altri 5 anni lì mi avrebbe fatto perdere l’identità a cui tenevo di più, quella di docente, senza peraltro conseguire altre identità e mansioni riconosciute e adeguatamente compensate.
Sentivo che rinunciavo a qualcosa di prezioso, che nelle logiche carrieristiche era come retrocedere di molte posizioni, che forse non avevo coraggio nel contrastare quell’isolamento che avevo toccato con mano, ma prevalse la voglia si sentirmi libero e leggero.
Fu una scelta felice.
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