Traggo questa lunga citazione dal saggio che avevo citato in un precedente post. Nel 2002 così Giuliano Amato descriveva il populismo. Vale la pena di rileggere questo pezzo e l’intero saggio perché quanto ci sta accadendo in questi giorni non è cosa nuova e il senso di meraviglia e di spaesamento è concesso solo agli adolescenti che hanno marinato il corso di storia.
(….) Spunta qualcuno che si candida a essere rappresentante di questi sentimenti anti-establishment, il professionista dell’anti-politica che tanto bene abbiamo conosciuto in Italia in questi anni. Quante carriere, nel nostro paese, sono passate proprio attraverso la politica dell’anti-politica.
Ma il fenomeno è più generale. Il diffondersi di questi sentimenti è legato al crescere, nel corso del secolo, del ruolo dello Stato nell’economia e alla progressiva degenerazione dell’intervento pubblico. E’ lì che vanno rintracciate le origini dell’ostilità diffusasi nelle coscienze individuali verso lo Stato, verso le burocrazie, verso i politici. Nella recente pubblicistica anglosassone ha avuto grande successo il concetto outside leader. Una definizione che si applicava a quei grandi leader che, anche quando ricoprivano ormai ruoli istituzionali chiave, continuavano ad avvalersi delle armi dell’anti-politica, dell’outside leader appunto: «Io non rappresento quelli di Washington, quelli di Roma, quelli di Bruxelles, io rappresento voi. Io sono contro quelle sanguisughe». Ronald Reagan è stato il più grande degli outside leaders: usando questi moduli populisti ha raggiunto la presidenza degli Stati Uniti e, anche quando era l’uomo più potente del mondo, ha continuato a interpretare il ruolo dell’outside leader, del grande condottiero estraneo alla politica. Lo ricordo quando, dalla Casa Bianca, parlava di ‘quelli di Washington’ come se lui fosse in California o nel Texas. Ed era tale la sua estraneità culturale all’establishment, che è riuscito a essere credibile.
Ecco, l’anti-politica è un tipico modulo populista che viene fuori come il sintomo di una patologia che colpisce la democrazia. In un sistema istituzionale funzionante ed equilibrato, infatti, c’è un elemento che gli studiosi chiamano fideistico e un elemento pragmatico. Senza di essi la democrazia non funziona. Ci si lega a una realtà istituzionale se ci sono ragioni di fiducia che vanno al di là del calcolo razionale, se c’è quella che Bagehot chiamava «the dignified part of institutions»: che può essere la regina, la bandiera nazionale. Ma deve esserci anche la parte efficiente, quella che in inglese viene indicata col termine delivery, che significa essenzialmente dare servizi.
Fascismo e nazismo sono regimi che giocano tutto sulla parte fideistica. E sappiamo che sono modelli non democratici. Ma anche laddove i sistemi istituzionali perdono del tutto la parte fideistica, affidandosi esclusivamente al calcolo razionale, la democrazia non è poi tanto in buona salute. Perché l’efficienza è sempre relativa e, inevitabilmente, si finisce con il dare troppo spazio agli individualismi, ai mercanteggiamenti, che sono utili solo per chi partecipa allo scambio e non per la collettività nel suo insieme.
E’ qui che viene fuori il populismo. È quando c’è l’eclissi della parte fideistica della democrazia, quando emerge m modo troppo pragmatistico il profilo di scambio, quando le ambizioni dei protagonisti dell’arena politica sembrano prevalere sui fini collettivi, che in alcune forze politiche sorge la tentazione di utilizzare il modulo populista dell’anti-politica. Anthony Down, nella sua analisi economica della democrazia, aveva scritto già in modo definitivo e perentorio, molti anni fa, che la politica come tutte le attività umane ha bisogno delle ambizioni di coloro che la praticano, ma ci vuole un necessario equilibrio tra l’interesse collettivo e queste ambizioni. Se equilibrio manca, ecco che la democrazia si espone alla patologia del populismo, che raccoglie l’insoddisfazione e crea identità collettive contro qualcuno, contro i partiti, contro la burocrazia, contro le multinazionali. È proprio questo il modulo che usa il populista: fa una rassegna dei problemi, che è sempre lancinante e lacerante, e li imputa a qualcuno. Se poi gli capita di governare non li risolve. E la colpa di questo di chi è? Di certo non sua, ma di quel qualcuno che glielo ha impedito. Purtroppo in una società come quella del nostro tempo siamo particolarmente esposti al modulo populista. Questo, infatti, ha gioco facile in una realtà che, come dicevo, è fatta di individualità che non vengono facilmente composte dal proprio ruolo economico-sociale. Ma che sono alla ricerca di altri terreni di identità comune, in un mondo dominato da mass media che tendono a semplificare i messaggi, facendo leva più sull’emotività che sulla razionalità.
Il vantaggio competitivo è enorme. È facilissimo, infatti, lanciare messaggi semplificati contro l’establishment. Così come è facile usare i mass media per evidenziare problemi, insicurezze paure e poi dire: qualcuno è contro di te, ma io sto dalla tua parte e risolverò i tuoi problemi. E’ facile, è un gioco da ragazzi. Ma quando poi si va al governo e le responsabilità si hanno sul serio, il modulo funziona molto meno.
Categorie:Politica
L’ha ribloggato su Raimondo Bollettae ha commentato:
Un’altra lettura da rimeditare di 5 anni fa
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