Anche Clotilde ci ha lasciato, da qualche anno soffriva di una malattia che le impediva di muoversi autonomamente ma questo non le ha impedito di portare avanti tante ricerche e nuovi studi in condivisione con la vasta rete di coloro che in modo appassionato si occupano di scuola.

Negli anni ’80 è stata docente nel corso di dottorato in pedagogia diretto da Aldo Visalberghi; in quegli anni ho avuto modo di apprezzare il fascino di una persona ricca di interessi, di esperienze, di relazioni umane e culturali, fascino rinforzato dalla sua elegante bellezza e da una espressività linguistica particolarissima, qualche parola di uso comune quasi dialettale, parole in inglese fluente, sintassi perfetta ed accurata quando serviva.
Lunedì scorso ho partecipato al suo funerale celebrato al tempietto ebraico, all’aperto dato l’alto numero delle persone che volevano renderle omaggio. Non avevo mai assistito ad un funerale ebraico e ciò che mi ha colpito è stata la lunga preghiera cantata in ebraico antico, la separazione dei maschi dalle femmine, l’uso della kippà da parte dei maschi adulti. Io, essendo un gentile, ne ero privo ma imitando qualcun altro, ho usato la mascherina come sostituto per coprire il capo.
Un brevissima commemorazione da parte di due suoi amici, uno dei quali ha citato il Talmud secondo cui quando si legge un testo lasciato scritto da un defunto le labbra del defunto tornano a muoversi; così ha letto un testo di Clotilde pubblicato da una rivista ebraica che parlava della pluralità delle identità diverse che compongono una comunità apparentemente omogenea. L’orazione funebre si concludeva con l’immagine delle labbra di Clotilde che tornavano a muoversi mentre le sue parole venivano lette e pronunciate. Ho pensato che per molto tempo il suo magistero, le sue parole e le sue labbra avrebbero continuato a tramettere conoscenza e competenza a nuove generazioni di ricercatori e di docenti.
Ho pensato che la sua attenzione e le sue ricerche intorno al linguaggio, alla comunicazione e all’educazione fossero fortemente ispirate al ruolo centrale che la parola ha nella religiosità ebraica.
Così ho ricordato la commemorazione funebre che Clotilde organizzò qualche anno fa in ricordo del marito Maurizio, prematuramente scomparso. Un rabbino fece una lezione per me del tutto nuova sul valore della parola nel popolo ebraico. Disse che il popolo ebraico non è il popolo del libro ma è il popolo della parola. Il testo sacro scritto è incompleto, privo delle vocali, ci sono solo le consonanti e per dar significato al testo occorre che il lettore aggiunga le vocali, che da segno scritto su una pergamena o su carta torni ad essere parola espressa a viva voce. Non entro nei dettagli di quella conferenza così nuova per me ma ricordo solo questo dettaglio sul valore della parola pronunciata da un vivente perché diventi viva, anche quella che pronunciamo nella vita corrente, nella vita familiare.
Nel breve cammino per raggiungere il luogo della tumulazione pensavo che Clotilde ci lasciava un grande patrimonio di pensiero e di cultura che sta ora a noi, soprattutto ai più giovani, tener vivo, magari per contraddirlo o contestarlo o, molto meglio, per cibarsene se vorremo occuparci della crescita dei nostri ragazzi.
Alla fine della tumulazione il mio amico Saul, collega del corso di dottorato mi chiede, tu sai perché si indossa la kippà? e perché andava bene anche la mascherina che hai tirato fuori tu? Certo, credo di saperlo, è un segno che riconosciamo che sopra noi c’è qualcuno.
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