Questo blog, nel raccontare le mie riflessioni sui temi del momento, costituisce una specie di promemoria personale da rileggere, si spera, in futuro per verificare se ero dalla parte giusta e se avevo capito quel che sta succedendo. In questi giorni molti di noi hanno tremato nel constatare quanto siamo dipendenti da realtà apparentemente lontane che non ci riguardano direttamente. La guerra in Ucraina c’è dal 2014, ne ho avuto una percezione episodica e superficiale (Ucraina) anche se qualche racconto era di prima mano da parte di giovani emigrati qui da noi che sono tornati in patria per combattere.

L’allarme per l’aggravarsi della situazione è conciso con la recente vampata inflazionistica originata dalla crescita abnorme del costo del gas e poi del petrolio. Immediatamente ho cercato l’Ucraina sulla carta geografica e su Wikipedia ed ho scoperto che è un paese molto grande e popoloso, ricco di molte materie prime strategiche per lo sviluppo tecnologico. Ciò contrastava con il numero di badanti e di immigrati temporanei che per un tozzo di pane fanno un vita difficilissima qui da noi dovendo scappare dalla miseria. Questa constatazione mi ha portato a pensare che la caduta dell’Unione sovietica e il contestuale collasso economico e politico del comunismo sono una ferita gravissima ancora aperta che influisce sulle scelte dei singoli e delle comunità. Lo stesso discorso di Putin che annunciava il riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbas suona diversamente alle orecchie di coloro che hanno vissuto nell’Unione sovietica e che ora sopravvivono stentatamente con pensioni maturate prima delle grandi crisi economiche di questo trentennio. Non giustifico nulla, dico solo che la realtà effettiva sul campo e quella percepita da chi poi va alle urne è profondamente diversa dalla nostra che godiamo dei frutti della impostazione socialdemocratica del nostro welfare.
Riporto qui per esteso alcuni testi che mi sono stati utili per capire e che non vorrei perdermi.
Il seguente è l’articolo più chiaro e convincente sulla questione Ucraina tratto dal Manifesto
Ucraina, fallimento europeo e atlantista
di Alberto Negri, per Il Manifesto
L’Ucraina è una sorta di fallimento europeo e atlantista. Al punto che ormai il primo partner commerciale dell’ex repubblica sovietica è la Cina, che in questi giorni si è comprata, approfittando della crisi con la Russia, anche la Borsa di Kiev. L’Unione europea, dopo l’accordo di associazione nel 2017, ha versato nelle casse ucraine aiuti per oltre 5 miliardi di euro e in queste ore ha erogato assistenza finanziaria per 1,2 miliardi. Ma il Paese scivola nelle mani dei cinesi ed è costantemente sull’orlo del collasso.
Nei trent’anni seguiti alla dissoluzione dell’Urss, il Paese ha fatto ancora più passi indietro rispetto agli Stati confinanti. Nel 1992 il reddito medio ucraino era il 90% di quello polacco, attualmente è meno del 40%. All’origine del fallimento uno stato debole e lo strapotere degli oligarchi che genera corruzione.
Washington e Bruxelles faticano a prenderne atto. L’Ucraina passa così da una crisi economica all’altra, con un assetto istituzionale fragile, un’economia debole e una corruzione pervasiva. Questo nonostante riceva aiuti occidentali, economici e militari, dal 2014, l’anno della guerra civile con 14 mila morti, due milioni di profughi e l’annessione russa della Crimea. Ma si continua a guardare il problema ucraino attraverso la lente russa, trascurando le debolezze strutturali di Kiev.
L’Ucraina ha acquistato la propria sovranità solamente dopo l’implosione sovietica. In precedenza il territorio era suddiviso tra gli imperi zarista e austro-ungarico, arrivando all’indipendenza per un breve periodo dopo la fine della prima guerra mondiale, prima di essere incorporata nell’Unione Sovietica.
L’Ucraina post-sovietica si è trovata di fronte al difficile problema di costruire uno Stato e in questo difficile processo sono emerse le divisioni della società ucraina. La religione stessa è un elemento di separazione. La popolazione è a maggioranza ortodossa – l’ortodossia è nata a Kiev – ma esiste una consistente minoranza cattolica di rito greco.
Nel gennaio 2019 il patriarca ecumenico di Constantinopoli, Bartolomeo, primus inter pares fra i capi religiosi ortodossi, ha conferito alla Chiesa ortodossa di Ucraina l’indipendenza autocefala. Questa scelta è stata determinata dalla volontà di ridurre la storica influenza di Mosca e ha creato un’ulteriore divisione tra i fedeli, che devono decidere se obbedire al patriarca ucraino o a quello moscovita.
Il paese è bilingue. La questione linguistica divide la società ed è diventata strumento di lotta politica, soprattutto da parte di quei partiti che vogliono creare un’identità ucraina in opposizione alla parte in cui si parla il russo. Il penultimo presidente, Poroshenko, parla il russo meglio dell’ucraino, mentre l’attuale presidente Zelensky ha lavorato come comico per una tv di lingua russa. Nel 2019 il parlamento ha votato una legge che stabilisce l’ucraino come lingua ufficiale del paese e sostituisce il russo nelle scuole medie in cui prima veniva usato.
Il Paese è diviso anche economicamente: la parte a est del Dnepr è più industrializzata, quella a ovest è storicamente a vocazione agricola. L’Est è il cuore industriale del paese in cui vengono prodotti acciaio, armi, auto e prodotti aereospaziali. È la zona della prima industrializzazione in epoca zarista sulla quale si è innestata quella successiva sovietica. La capitale Kiev è il maggior centro di produzione terziaria del paese, dove hanno sede imprese del settore aereonautico, energetico (Naftohaz) e telefonico (Kyivstar).
Ma chi governa l’Ucraina? Riposta semplice e brutale: gli oligarchi, in maniera più o meno diretta. Gli oligarchi hanno formato una rete di imprese e attività disparate acquisendo un enorme potere. Qualunque presidente e primo ministro ucraino è sempre stato dipendente dagli interessi e dall’influenza dei vari Akhmetov, Firtash, Kolomojsky, Medvedchuk, Poroshenko, Tymoshenko. Gli ultimi due – il primo come presidente, la seconda come premier – hanno direttamente governato il paese. Non si è dunque formata una classe dirigente in grado di definire gli interessi nazionali e controllare i potentati economici.
L’Ucraina è un caso di scuola di Stato corrotto e inefficiente. È solo l’aiuto economico di Banca mondiale, Fondo monetario, Unione Europea e Stati Uniti che ne impedisce il crollo verticale. La Ue ha erogato 5 miliardi di euro, il Fondo un prestito da 17 miliardi, ma questi soldi o sono stati spesi male oppure neppure sono arrivati per l’incapacità di gestione dei governi di Kiev. Nonostante i tentativi di combattere la corruzione, la situazione non è migliorata. Anzi, sembra sia addirittura aumentata dopo l’elezione di Zelenskj.
L’Ucraina è il simbolo di un cattivo affare dell’atlantismo. C’erano due obiettivi. Uno: con gli aiuti militari e finanziari occidentali, era contenere la Russia e dissuaderla dal sostenere le repubbliche autoproclamate del Donbass e di Luhansk (che la Duma di Mosca vorrebbe riconoscere). Il secondo era ideologico: costruire in Ucraina uno Stato a imitazione del sistema occidentale, con l’ovvia conseguenza dell’adesione alla Nato. È però evidente che l’Ucraina non sarà ammessa nella Nato perché questo significherebbe uno scontro armato con la Russia.
L’Europa dovrebbe chiedersi qual è il vero stato dell’economia e della società ucraine, abbandonando il pregiudizio che tutto quello che non funziona è determinato dalla pressione russa. La crisi non può essere risolta senza un’intesa tra Russia e Ucraina, a sua volta parte di un più ampio accordo tra Mosca e l’Occidente. Si possono cambiare molte cose di un Paese, non la sua geografia.
Articolo di Alberto Raineri tratto dal Foglio
Poveri territori filorussi dell’Ucraina, usati con cinismo da Mosca come un’arma per prevalere nel confronto con la comunità internazionale. Di Donetsk e di Lugansk, come del maiale, non si butta via nulla: i due oblast in questi anni sono stati sfruttati dal punto di vista militare, politico, diplomatico e anche umanitario. Fino a ieri, quando sono stati riconosciuti come “repubbliche popolari” indipendenti dalla Russia. Adesso la prima cosa da capire è se il territorio delle due “repubbliche” è soltanto quello sotto il controllo dei miliziani filorussi dal 2014 oppure quello delimitato dai confini ufficiali delle due regioni. Nel secondo caso, vorrebbe dire che le due “repubbliche” fresche di conio rivendicano molto più territorio di quello che occupano al momento, quindi se i russi alleati e amici volessero ci sarebbe il pretesto per un conflitto che avrebbe come scopo la liberazione delle due regioni per intero, incluse le parti che ora sono – sempre secondo questa versione scritta dal Cremlino – sotto l’occupante ucraino“, Daniele Raineri sul Foglio.
PERCHE’ L’UCRAINA RESTA UN BUCO NERO DELLA CATTIVA COSCIENZA EUROPEA
di Gad Lerner
Vi propongo questa mia ricostruzione del passato che pesa sull’attuale crisi ucraina, uscita su Il Fatto Quotidiano del 16 febbraio 2022.
Nessun soldato occidentale morirà per Kiev e il primo a saperlo era Putin, memore della ritirata disonorevole della Nato da Kabul, neanche sei mesi fa. La messinscena di un’alleanza atlantica ricompattata contro il nemico russo non può risultare credibile dopo la figuraccia afghana che ha svelato al mondo quanto poco valgano ormai le promesse e la capacità dissuasiva della Nato. Su tale convinzione Putin ha basato il suo minaccioso azzardo. Che si trattasse di una mossa propagandistica lo ha capito anche Volodymyr Zelensky, l’attore comico divenuto presidente dell’Ucraina, non a caso impegnato da giorni a smentire l’allarme invasione di Joe Biden. Le diplomazie europee, in barba ai proclami formali di lealtà, si sono smarcate dal presidente Usa, relegando nell’anacronismo i dottor Stranamore cui non è sembrato vero di poter riesumare sui mass media il linguaggio vintage della Guerra Fredda.
Peccato che questa de-escalation non rappresenti una buona notizia per gli ucraini, ai quali potrebbe toccare presto il colpo basso dell’annessione russa del Donbass. Continueranno a vedersela con le mire imperiali di Mosca come tocca loro da secoli, ben prima del comunismo.
Da quando nel 996 il regno Rus’ si convertì al cristianesimo sulle rive del Dnepr, assumendo Kiev come fonte battesimale della grande Madre Russia, e loro venivano chiamati cosacchi, tatari o ruteni, il destino di questo crogiuolo di nazionalità, chiese, alfabeti li ha visti mescolarsi ai russi, ai polacchi, ai tedeschi, agli armeni e agli ebrei in città cosmopolite; o disperdersi nelle steppose regioni cerealicole che negli anni Trenta del secolo scorso, per colpa della guerra di classe scatenata dai comunisti sovietici ai kulaki, i piccoli proprietari, conobbero l’ecatombe dell’holodomor, la peggiore delle carestie. Si calcola che tra guerre, fucilazioni di massa e per fame, l’Ucraina abbia contato 17 milioni di morti nel Ventesimo secolo. Il seguito di quella tragedia destabilizza ancora il mondo contemporaneo.
Gli ucraini non si libereranno mai dei russi perché con loro si sono sposati e hanno fatto figli, sono i vicini di casa immigrati dopo la rivoluzione bolscevica e dopo la carneficina della Seconda guerra mondiale. La guerra con Putin non sarebbe dunque un’invasione dai confini ma l’estensione di un conflitto fratricida come quello già in corso nel Donbass.
La degenerazione post-sovietica dell’Ucraina è il buco nero d’Europa, il precipizio dove va a perdersi la nostra cattiva coscienza. Là dove nel Novecento si perpetrò l’amputazione delle nazionalità conviventi, oggi allignano la corruzione, il mercato nero dell’energia e il fanatismo. Prendiamo la regione occidentale di Leopoli, dove gli Usa hanno trasferito l’ambasciata perché si considera la più stabile, per netta prevalenza etnica ucraina e minor influenza russa. Ebbene, questa apparente tranquillità altro non è che l’esito di una mutilazione. Per volontà di Hitler fra il 1941 e il 1943 fu annientato un terzo della popolazione locale, cioè gli ebrei, con l’attiva partecipazione dei nazionalisti locali arruolati nella Divisione SS Galizien. Nell’immediato dopoguerra, poi, un altro terzo della popolazione, costituito dai polacchi, per ordine di Stalin fu deportato verso la Slesia e la Pomerania, al posto dei tedeschi che ne venivano espulsi. Così la splendida Leopoli dal volto asburgico si è ritrovata interamente ucraina. Veri e propri trapianti etnici che, unitamente al genocidio e a 46 anni di regime sovietico, hanno abbruttito regioni un tempo floride. Terre fertili, riserve petrolifere, scuole e università di prim’ordine. Al posto loro, tanta desolazione e strascichi di reciproca ostilità.
Un esempio personale: quando da Leopoli sono andato verso i monti Carpazi a far visita alle fosse comuni in cui giace quasi tutta la mia famiglia paterna, pochi tornanti sotto quel luogo mi sono imbattuto nel monumento a Stepan Bandera, tuttora venerato leader antisemita dell’Oun, l’organizzazione nazionalista che aiutò i nazisti a perpetrare lo sterminio. Insieme a Symon Petljura, Bandera resta l’eroe dell’indipendentismo ucraino, non importa se di marca fascista: gli basta che combattessero il comunismo di cui gli ebrei, detti “giudeobolscevichi”, venivano accusati di essere complici. La rimozione della storia, praticata dallo stalinismo per negazione delle autonomie nazionali (fu Nikita Krusciov, segretario del Partito comunista ucraino dal 1938 al 1949, a guidare la repressione), nell’Ucraina indipendente dal 1991 ha sterzato nella direzione opposta. Nessun libro di testo scolastico ammette le infamie di cui si macchiarono i nazionalisti alleati di Hitler. Solo ora a Kiev, non senza polemiche perché si temeva di fare il gioco dei russi, è stata ammessa la commemorazione dell’”Olocausto dei proiettili” sull’immensa fossa comune di Babi Yar, dove furono accatastati 34 mila ebrei uccisi in soli due giorni tra il 29 e il 30 settembre 1941. Né la mattanza si fermò, superando la soglia di 100 mila morti nei mesi successivi.
Nei giorni scorsi lo schieramento dei contingenti Nato sulla frontiera occidentale dell’Ucraina, in Romania, Ungheria, Slovacchia e Polonia è stato meramente simbolico. Altrove sono posizionate a tenaglia le truppe di Mosca. A nord, sul confine con la Bielorussia, poco distanti da Charkiv, città con alta percentuale di popolazione russa, non a caso sede del governo sovietico dal 1917 al 1934. A sud con la flotta che presidia il Mar Nero minacciando Odessa, la patria di Lev Trockij e Isaak babel (come il cristianesimo, anche la rivoluzione russa ha avuto forti radici in Ucraina). Ma è soprattutto a est che dal 2014, quando un’azione di forza ricongiunse alla madrepatria russa la Crimea donata da Krusciov nel 1954 all’Ucraina, mai si è smesso di combattere. Qui sono sorte le “repubbliche popolari” di Donetsk e di Luhansk, foraggiate da Mosca e contraddistinte da un nazionalismo fanatico che attira le simpatie dell’estrema destra europea, con tanto di volontari stranieri arruolati nelle loro file. Paradossalmente, anche il nazionalismo antirusso di chi le combatte s’identifica nella medesima radice fascista.
Nel 2013 fu improvvidamente bocciato un trattato di stabilizzazione e adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Da allora, per scongiurare il pericolo di ricadere sotto la “sovranità limitata” di Mosca, una classe dirigente ucraina imbelle e corrotta ha fatto suo l’obiettivo di entrare nella Nato. Una scorciatoia pericolosa di cui oggi si è manifesta l’inefficacia.
L’articolo di Lerner è complesso e di non facile lettura, segnato dalla esperienza dolorosa della sua famiglia. Non condivido però la tesi secondo cui Putin si sia mosso perché la Nato si è ritirata dall’Afganistan. Lo ha fatto in questo momento anche per ragioni interne, è il segno di una debolezza politica di una leadership che non può consolidarsi nel tempo se non dà frutti tangibili a livello della qualità della vita del popolo e ha bisogno di vittorie sul campo. Se fosse vera la mia ipotesi, la situazione sarebbe ancora più preoccupante perché tante debolezze Biden da un alto con le elezioni di mezzo termine, Putin dall’altro ed EU con le sue incertezze essendo nel mezzo dello scontro, sono un rischio molto grande per tutti. Comunque la guerra c’è da 8 anni con distruzioni e morti a cui gli ucraini si sono abituati e Putin non può sacrificare i suoi per liberare un po’ di Russofoni. La soluzione più probabile è una guerra locale per procura endemizzata come la Siria e tanti paesi medio orientali. Non per niente la Duma russa a poche ore dalle scelte di Putin ha formalizzato che il riconoscimento del territorio indipendente delle repubbliche non riguarda i confini formali e legali ma le linee di fuoco ora attive tra le forze indipendentiste e l’esercito ucraino. In sostanza la Duma offre la possibilità di chiudere qui la partita senza troppo spargimento di sangue ulteriore e senza invasioni fino a Kiev come Biden e i servizi americani paventano per spaventare gli europei come mostrato nella carta seguente.

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