Merito, un sasso nello stagno

Nel precedente post sul ballon d’essai sul merito lanciato dalla nuova denominazione del Ministero dell’Istruzione chiedevo di sviluppare la discussione e qualcuno mi ha preso in parola.

Il mio amico Maurizio, anche lui preside in pensione che spesso mi scrive in privato, mi ha inviato due testi ed un suo commento che qui riporto ad uso di chi voglia riflettere ancora sulla questione.

Caro Raimondo, ti invio due articoli sul merito. Avevo seguito Ichino sul suo blog quando sosteneva l’Invalsi ma in questo caso mi sembra che abbia mancato il bersaglio.  Giustificata la critica al corpo docente scalcagnato e/o demotivato, ma non generalizzabile, scorretta la pratica della premialità selettiva, che scatena una atmosfera concorrenziale incompatibile con la scuola, che richiede organizzazione e condivisione in cui l’istruzione (fornire strumenti e verificarne la corretta acquisizione)  si coniuga con l’insegnamento (formare all’uso di segni e linguaggi, de/costruendo e confrontando test) in un processo di educazione nel quale le qualità e caratteristiche individuali devono essere coltivate  e fatte maturare per operare le rispettive scelte di vita.
Ricordo il proliferare di progetti da inserire nel POF per accedere ai fondi d’istituto e la resistenza dei docenti scalcagnati alleati con motivazioni diverse con i docenti encomiabili contro l’Invalsi, con docenti distratti che lasciavano copiare, senza sapere che avevate gli strumenti per valutare risultati inaccettabili.
Era quanto mi raccontava il compianto dirigente del Volta di Milano Giordano, mio tutor. Era stato il primo (2000) che aveva avviato un percorso di valutazione dei docenti con l’intervento di studenti e famiglie, ma aveva dovuto superare l’opposizione e l’ostilità, per lui incomprensibile, proprio dei docenti più esperti e di qualità.
Un altro aspetto che mi ha sempre indispettito era il ruolo di selettore valutatore di curricula affidato al dirigente, fonte di conflitti sindacali; specie se congiunto alle normative prodotte da Brunetta, (valide forse nella PA) complicate e farraginose, di difficile applicazione per sanzionare un docente. 
Ricordo l’unica docente di matematica che ho cercato di sanzionare. Valutava in modo difforme questionari con lo stesso punteggio, contestava prove di trigonometria  corrette perché raggiunte con percorsi diversi da quelli insegnati, insegnava formule di fisica errate mettendo in imbarazzo gli studenti che non sapevano quale usare.
Le avevo preparato un foglio elettronico per tabulare i questionari, chiedendo che agli scrutini mi fossero presentati con le valutazioni. Mi rispose prima con  l’avvocato che mi contestava il mio diritto di valutare le valutazioni, in nome della libertà di insegnamento, poi, non presentò alcun tabulato dicendo che pensava l’avrei fatto io! 
Inutile fu ogni tentativo di censura per la tempistica stratificata e di difficile applicazione delle norme di Brunetta.
Ciao
Maurizio

Perché la Sinistra deve credere nel merito

Piero Ichino Repubblica 28/09/22
Contro l’idea del neo-ministro dell’Istruzione Valditara di porre il valore del “merito” al centro del proprio programma e addirittura nel nome del proprio dicastero la sinistra italiana sembra essersi ricompattata: dal vicesegretario del Pd Provenzano al segretario dei 5 Stelle Conte, al segretario della Cgil Landini, tutti convergono nel respingerla come reazionaria. Ma vi sono degli ottimi motivi per pensare proprio il contrario: cioè che la scuola non possa essere fattore di uguaglianza sociale se non impara a valutare e premiare il merito molto più di quanto non lo faccia oggi. Più in generale, è l’intera amministrazione pubblica che ha bisogno di questa rivalutazione del merito al proprio interno; e la sinistra dovrebbe far proprio questo obiettivo perché di un’amministrazione che funziona bene hanno bisogno soprattutto i più deboli e i più poveri. Ma torniamo alla scuola. Potenziare l’istruzione pubblica significa, certo, investire di più sull’edilizia e le attrezzature didattiche; ma significa soprattutto investire sul miglioramento della qualità dell’insegnamento, cioè sulla capacità e l’impegno degli insegnanti.
Questo implica non solo una formazione migliore di questi ultimi, ma anche inviarli a insegnare dove occorre e non dove fa comodo a loro. Implica far sì che la struttura scolastica sia capace di valutarne la prestazione per poter retribuire meglio i più bravi e allontanare dalle cattedre quelli che non conoscono la materia affidata loro, o non sanno insegnarla, o più semplicemente non hanno voglia di farlo. E per
valutare gli insegnanti occorre anche rilevare capillarmente l’opinione espressa su di loro dalle famiglie e dagli studenti. In altre parole, potenziare la scuola significa mettere al centro il diritto degli studenti, in particolare dei meno dotati, di quelli che non hanno alle spalle una famiglia colta. Nella scuola pubblica italiana tutto questo finora non si è fatto, perché vi si oppongono i sindacati degli insegnanti. Oggi, dunque, se un professore insegna male o non insegna del tutto, nella quasi totalità dei casi non accade nulla: così un’intera classe viene privata per uno o più anni dell’insegnamento di materie essenziali, come l’italiano o la matematica. E questo, si osservi, accade in modo diffusissimo: quasi ogni classe ha almeno un professore — se non due o addirittura tre — che per incapacità o negligenza non svolge in modo appropriato il proprio servizio. Potenziare la scuola pubblica significa attivare una sistematica e rigorosa valutazione della qualità dell’insegnamento impartito dagli istituti scolastici pubblici; ma anche consentire loro di scegliere gli insegnanti e attirare i migliori premiandoli. Questo si deve fare se si vuole davvero stare dalla parte dei più poveri. Una forte iniezione di “merito” occorrerebbe anche nel campo dei servizi al mercato del lavoro, perché diventassero un fattore di uguaglianza sociale, di aiuto ai più deboli. La sinistra italiana appare indifferente, distratta, di fronte allo scandalo di quel 40 per cento di nuovi posti di lavoro qualificato o specializzato — in Italia sono centinaia di migliaia! — che le imprese hanno
necessità di coprire ma non riescono a farlo per mancanza delle persone idonee. È la conseguenza di un sistema della formazione professionale del quale nessuno controlla e misura in modo sistematico l’efficacia. Per farlo il modo ci sarebbe: istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi
professionali, delle liste di disoccupazione. Sarebbe così possibile conoscere di ogni corso il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. È previsto nel decreto legislativo numero 150/2015; ma per un’intera legislatura non lo si è fatto perché una mappatura rigorosa dell’efficacia della formazione porterebbe a chiudere una buona metà dei centri che oggi vengono finanziati col denaro pubblico; e alla sinistra sembra star più a cuore la stabilità degli addetti a questi corsi che l’interesse della generalità delle persone e delle imprese a un mercato del lavoro innervato di servizi efficienti ed efficaci. Più in generale, se si vuole costruire l’uguaglianza di opportunità tra i cittadini e migliorare la condizione dei più deboli, l’efficienza ed efficacia dei servizi pubblici è indispensabile. È questa, a ben vedere, la coniugazione virtuosa tra merito e bisogni che Giorgio Tonini indicava l’altro ieri su questa stessa pagina come compito essenziale di una sinistra capace di fare bene il proprio mestiere.

Recalcati

Merito e scuola Repubblica 31/10/22
Esaurite le reazioni a caldo sulla nuova denominazione del ministero dell’Istruzione voluta dal governo Meloni, ritengo opportuno tornare sul concetto di merito per provare a dare, mi si perdoni il gioco di parole, merito al merito. Nella maggior parte degli interventi pubblici orientati a sinistra sul tema, non può non colpire la cautela sospetta se non l’aperta demonizzazione di questa parola e del suo significato considerato alternativo all’inclusione se non decisamente classista. È la stessa allergia che la sinistra più ideologica mostra verso un’altra parola che si è rivelata decisiva per la vittoria politica della destra: sicurezza. Ogni volta che si usano le parole merito e sicurezza scatta una sorta di riflesso pavloviano di ripudio che sembra anticipare ogni possibile argomentazione. Si chiama, effettivamente, pregiudizio ideologico. Per la sicurezza è quello che porta a percepire oscuramente l’uomo in divisa in quanto tale come un simbolo della repressione, per il merito è quello che condanna questa parola ad autorizzare alla diseguaglianza e alla crudeltà della selezione naturale. In realtà il merito, come è noto, è sancito come valore dalla nostra Costituzione (vedi articolo 34), con particolare attenzione verso gli allievi “privi di mezzi”. I capaci e i meritevoli vengono riconosciuti come tali a prescindere dal ceto sociale di appartenenza, dal colore della pelle, dal proprio luogo di nascita, dal proprio credo religioso, ecc.
Nondimeno, il compito dello Stato non si limita a premiare i capaci e i meritevoli ma anche a ridurre il più possibile quelle condizioni di diseguaglianza che tendono a favorire i soggetti al di là delle loro capacità e del loro merito. Si tratta di una rottura netta con ogni forma di familismo, di nepotismo, di casta. Non è questo ragionamento che dovrebbe garantire la piena acquisizione del termine merito nel vocabolario di una nuova sinistra? Ma la sinistra più ideologica percepisce solo il lato neoliberale del merito come avallo di una concezione dell’esistenza come corsa per la propria affermazione individuale, concorrenza, selezione, antagonismo, egoismo, assenza di inclusione. Ma questa versione è solo una degenerazione del valore del merito che toglie davvero merito al merito. Sarebbe come dire che reclamare il diritto alla sicurezza per la nostra via individuale e collettiva comporti necessariamente una virata repressiva dello Stato, una militarizzazione delle nostre città, ecc. Perché non si riesce a liberarsi da sinistra da questa maculopatia che pare aggravarsi insieme della debolezza della nostra visione della realtà. L’affermazione del merito non significa affatto concepire la vita come una corsa ad ostacoli, né colpevolizzare chi non è in grado di affermarsi come meritevole e capace, così come rivendicare il diritto alla sicurezza non significa affatto escludere politiche dell’accoglienza e dell’inclusione. Nella vita della scuola il significato del merito coincide con il potenziamento dei propri talenti. Non esiste, infatti, una norma standard di cosa debba essere il merito. Questo sarebbe un vero problema: la natura stessa del merito. Da questo punto di vista il merito è sempre per principio antigerarchico e singolare. Si potrebbe dire che coincida con la capacità generativa tout court. Non è forse questa la finalità prima della scuola?
Favorire in ciascuno lo sviluppo di questa capacità generativa al di là delle svariate forme che essa può assumere? Non si deve però trascurare che il merito nella vita concreta della scuola riguarda anche il corpo insegnante. Chi merita di insegnare? Possiamo ridurre questo merito all’acquisizione di un titolo?
Possiamo continuare da sinistra a non voler vedere, come invece sono costretti a vedere le migliaia di dirigenti scolastici impegnati quotidianamente nel loro lavoro, che esistono insegnanti che non hanno alcun merito per insegnare? Non è questo un enorme problema che la sinistra ideologica non solo non vuole prendere in considerazione ma giudica persino reazionario porre? Eppure nel mondo della scuola, università inclusa, è un fatto ben noto. Se nella loro maggioranza gli insegnanti sono capaci e meritevoli, esiste una parte significativa che non lo è affatto e che produce danni. Non necessariamente danni traumatici. Mi riferisco piuttosto a quei danni apparentemente impercettibili che riguardano l’ostruzione all’accesso di un sapere vivo, fertilizzato, animato. Mi riferisco a quella mortificazione ordinaria che trapela nell’eccessiva durezza, nel disincanto rassegnato, nel cinismo del giudizio, persino, talvolta, nel disprezzo aperto verso i propri allievi, insomma nell’assenza di consapevolezza dell’importanza cruciale della propria funzione educativa e didattica. Quali strumenti, quali dispositivi istituire per verificare il merito degli insegnanti, per disattivare il parassitismo e la noia, l’abulia e l’assenza di vitalità? La cosiddetta mentalità meritocratica viene guardata con sospetto perché pone questo problema come inaggirabile. Essa sarebbe qualcosa di orrendo, persino di mostruoso, un corpo estraneo a quello per principio inclusivo e democratico della scuola. Per quello che può valere, io rivendico invece il valore insostituibile del merito che nella pratica dell’insegnamento non consiste solo nel possedere il sapere necessario all’esercizio di una didattica, ma, prima di ogni altra cosa, il desiderio deciso di dedicarsi all’insegnare come ad una tra le pratiche più alte nel processo di umanizzazione della vita.

I tre testi che qui riporto offrono lo spunto per continuare ad approfondire una riflessione molto complessa. Mi fanno cambiare però il titolo del post da cui sono partito. La parola Merito scritta sull’architrave del Ministero dell’Istruzione non è un palloncino per vedere dove tira il vento ma è un sasso nello stagno delle tante contraddizioni del dibattito politico sulla qualità della scuola e sul riformismo che in questi decenni ha cercato di dare attuazione con fatica allo spirito della Costituzione che vede nell’istruzione diffusa un requisito imprescindibile per una cittadinanza matura e democratica.

La parola Merito assume tanti significati e per questo si presta ad essere usata anche come clava per attaccare questo e quello e, appunto, per far scoppiare contraddizioni sempre presenti in chi opera nel concreto della vita della scuola. Non per nulla nei due articoli di Repubblica sembra che il bersaglio sia soprattutto la qualità del personale docente e dirigente e la politica della sinistra sulla questione della selezione e della competizione. La destra ha gettato il sasso, vedremo quali sono i suoi scopi attraverso le scelte che farà.

P.S. del 2 novembre 2022

Chiara Saraceno, sempre su Repubblica, interviene ieri con un testo ricco e ponderato certamente utile per riflettere. Non condivido il finale che imputando a tutti i ministri dell’istruzione sin qui avuti di non avere operato perché il merito fiorisse realmente nella scuola, riconosce a questa operazione mediatica, che io valuto come una ambigua e pericola provocazione, un valore positivo e innovativo.

Saraceno perché il merito va fatto fiorire Repubblica 1/11/22
Il riferimento al merito (non alla meritocrazia, che è un’altra cosa) per quanto riguarda l’accesso all’istruzione superiore, alle posizioni nel mercato del lavoro, all’accesso ai luoghi di presa delle decisioni, ha un’indubbia forza democratica. Rappresenta il contrasto al nepotismo, ai privilegi ereditati, alle rendite di posizione. È anche uno strumento per valutare criticamente l’equità delle enormi disparità nei compensi dei grandi manager rispetto ai loro dipendenti. Richiede di valutare l’impegno che si mette per raggiungere i risultati, ma anche le difficoltà che si sono dovute superare. Proprio per la sua forza democratica è una rivendicazione spesso avanzata da chi soffre di qualche tipo di discriminazione. È il caso, ad esempio, delle donne quando richiedono di essere valutate per le proprie capacità e non in base a uno stereotipo di genere. Anche se proprio il caso delle donne mostra come, accanto alla difficoltà di far valere il proprio merito nel mercato del lavoro e nelle professioni, ci siano gli ostacoli che non consentono sempre di svilupparlo come sarebbe teoricamente possibile: stereotipi di genere, carriere rallentate o deviate, barriere di percorso. Perché il merito prima di essere visto e riconosciuto va alimentato in modo che possa fiorire. Anche i pochi che hanno dotazioni naturali eccezionali hanno bisogno di circostanze e incontri che consentano loro di manifestarle e nutrirle. Tanto più ciò vale per la maggior parte delle persone, che non ha doti innate eccezionali, ed ancor più per chi nasce e cresce in condizioni sociali svantaggiate. La scuola, a partire dal nido e dall’infanzia, è — dovrebbe essere — il luogo e il tempo in cui si coltiva la meritevolezza di ciascuno, sostenendo lo sviluppo delle capacità, indipendentemente dall’origine sociale, l’etnia, la cittadinanza, la disabilità. Perché tutti hanno diritto a sviluppare appieno le proprie capacità. Nell’impegnarsi in questo sta il merito, negli anni formativi, delle bambine/i e adolescenti. Parallelamente, nel creare le condizioni — ambientali, didattiche, relazionali — perché l’impegno venga sollecitato, riconosciuto e accompagnato sta la meritevolezza della scuola, tanto più grande quanto più agisce in contesti difficili, con bambine/i e adolescenti che non hanno alle spalle famiglie e contesti di vita dotati di buone risorse relazionali, culturali e materiali che possano integrarne l’azione. Quando il priore di Barbiana diceva che non si possono fare parti uguali tra diseguali non sosteneva che bisognava abbassare gli standard, come sostiene qualche critico superficiale. Al contrario era molto esigente con i suoi allievi. Sosteneva solo che, per sviluppare una didattica veramente inclusiva, ovvero che consenta a tutti/e di fiorire e sviluppare i propri talenti ed insieme di raggiungere gli standard necessari per muoversi adeguatamente in società, occorre tener conto dei punti di partenza e lavorare su e con essi, non ignorandoli in uno pseudo-universalismo cieco alle differenze e diseguaglianze. Il carattere fortemente classista (ed ora anche di origine migratoria), oltre che territoriale, del fenomeno della dispersione scolastica esplicita (abbandono) e implicita (mancato raggiungimento delle competenze minime) nel nostro Paese non testimonia una scuola che ha abbassato i propri standard in nome dell’eguaglianza e del disprezzo del merito. Al contrario, è esito di una scuola che non è sempre riuscita a tener conto delle diseguaglianze e differenze come contesto e punto di partenza per una didattica capace di includere tutti nell’avventura dell’apprendimento e dello sviluppo della propria personalità. Purtroppo in Italia non solo non tutti i “capaci e meritevoli” privi di mezzi sufficienti sono messi in grado di proseguire gli studi, in barba al dettato costituzionale. Succede anche che a troppi non vengano garantitele condizioni educative e di apprendimento per diventarlo e comunque per sviluppare le proprie capacità, in barba al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione. Se il ministero dell’Istruzione vuole davvero dare senso all’aggiunta “del merito” nella propria denominazione dovrà occuparsi di costruire le condizioni perché a tutte le bambine/i, a partire dai più svantaggiati, sia garantito il diritto costituzionale ad avere le risorse per il pieno sviluppo della personalità, capacità incluse. L’Italia è ricca di esperienze in questa direzione, anche se purtroppo finora nessun ministro si è impegnato a farle diventare la modalità normale di fare scuola, creandone le necessarie condizioni organizzative, istituzionali, di formazione degli e delle insegnanti.

segue



Categorie:Cultura e scuola, Elezioni politiche 2022, Politica, Valutazione

Tag:,

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: