Merito, vincitori e vinti

Riporto in primo piano, come un articolo, un commento alla lettera di Tiriticco che Giovanna Barzanò ha inviato a caldo e alla quale ho replicato.  Ieri sera mi sono reso conto, parlando al telefono con amici che stanno seguendo il blog, che i commenti non sono visibili se non si clicca il link opportuno e vengono trascurati perché spesso sono solo delle brevi frasi di assenso o dissenso poco importanti. Non è questo il caso. Grazie Giovanna.

In effetti Chapeau! A questo quadro così vivo e sollecitante, alla brillante lucidità storicamente determinata dell’amico Tiriticco, a come riesce così efficacemente a combinare ironia e passione nell’analisi (e a Raimondo che ha scelto di condividerlo)
Senza nulla togliere all’intelligenza e all’arte di queste immagini, anzi forse richiamata dal loro potere suggestivo, si rifa viva una piccola ma fastidiosa pulce che gira da tempo dalle parti del mio orecchio. Ma che cosa si può fare? Che cosa possono fare gli insegnanti oltre a scendere dalla cattedra e girare tra i banchi? Perchè è ormai chiaro che questo non potrebbe comunque bastare, anche se avvenisse più spesso (e accidenti se avviene già! Nel mio lavoro continuo a vedere esempi di splendida didattica e di magistrali “navigazioni dirigenziali” -perchè così ormai bisogna chiamarle visto quello che è diventata la professione dirigente). Dobbiamo stare attenti a non cadere nella trappola di lasciare pensare che sia colpa degli insegnanti, di noi educatori.
Per essere un po’ foucaultiani, cioè ragionare alla Michel Foucault: come potrebbe un insegnante o un dirigente “costruito” con 4 o 5 mesi di esercizi per memorizzare item scendere dalla cattedra e girare tra i banchi con il brio necessario? Che cosa “fanno” a una persona, a un professionista, 4 o cinque mesi di bigliettini appesi allo specchio del bagno per cercare di ricordare 5000 stupide risposte? Perchè oltretutto diventano tutte stupide, anche quelle che potrebbero essere intelligenti, quando sono costrette ad annidarsi in questo processo ineffabile, che così come è architettato dichiara trasparenza ma è assolutamente incontrollabile, paradossalmente anche da noi “operai” che ne facciamo parte (l’ho sperimentato di persona!) – non parliamo dalla categoria.
Che cosa “fa” ad una categoria un processo che non manifesta alcuna consapevolezza del fatto che “ogni scelta di un vincitore comporta la certificazione di molti sconfitti” (Michael Young, The rise of the meritocracy 1958), che se non hanno altre possibilità di cimentarsi per anni, continueranno ad aggirarsi affannati e perseguitati da questa etichetta e a lavorare stringendo nelle mani l’infame certificato di una sconfitta che non hanno alcun modo di riscattare.
Mentre i “vincitori”, incoronati dal merito, si sentono “entitled”, intitolati.
“Il merito – dice la brava sociologa francese Marie Duru-bellat (Le merite contre la justice 2009) ispirandosi a Amarthia Sen – discutiamone: quale merito, per fare che cosa?” Ce lo possiamo permettere con le strutture che abbiamo, con le deformazioni che arrecano, così come sono ad ogni processo?
Così, con qualche strumento critico circostanziato – e molti ce li dovremmo costruire per dibattere -, diventa chiaro perché cattedre e scrivanie dirigenziali rimangono paradossalmente ancora troppo spesso i baluardi, mentre ci inebriano musiche che cantano orizzontalità, dialogo, interdipendenza. E’ naturale che molti “sconfitti” (che rimangono comunque operativi perchè il sistema ha bisogno di loro!) tendono a ripararsi lì, su cattedre e scrivanie, luoghi che possono offrire una qualche sicurezza tradizionale, un qualche barlume di potere, un po’ di ristoro per rifarsi dell’identità tradita. E’ duro, troppo duro ricostruirsi un’identità girando tra i banchi da diseredato. In fin dei conti, nostro malgrado siamo costretti a guardarli con simpatia e complicità. E’ questa la tragedia foucaultiana di come il sistema ci costruisce contro noi stessi senza che quasi ce ne rendiamo: siamo costretti nostro malgrado. Sorridiamo con una simpatia affettuosa e più che giusta ai tanti bravi amici e stimati colleghi che sappiamo ingiustamente sconfitti, ma anche agli ignoti di cui non conosciamo le qualità. Strizziamo l’occhio non certo con pietà – tutt’altro -, pazienza se si rifugeranno tra cattedre e scrivanie (qualcuno ha contato quanti vice presidi “sconfitti” o insegnanti restano – sono costretti a restare – nella posizione?). Che cosa potrebbero/potremmo fare altrimenti in questo contesto?
E le nostre energie vanno lì, tra sdegno, solidarietà piccole strategie.
Ai miei tempi c’era Francesco de Bartolomeis con “La ricerca come anti-pedagogia” ad ispirare noi giovani insegnanti – che per altro criticavamo sereni con la nostra bella corona in testa, io sono passata di ruolo a 19 anni, come molti dei miei colleghi bergamaschi-
La mia copia ha le pagine quasi consumate, pagine che ci invitavano a raccogliere dati, a confrontarci con studiosi, a esporre il nostro lavoro, a farlo criticare.
Erano anche tempi dove la ricerca operativa aveva la possibilità di influenzare la formazione delle leggi e le riforme, come dimostra l’esperienza di Loris Malaguzzi a Reggio Emilia….
Oggi dove sta una ricerca critica serrata, che asserragli il decision making, decostruisca i luoghi comuni – tra cui il merito – e riesca a condizionare almeno un po’ le decisioni cruciali?
La dobbiamo cercare in Inghilterra, in Francia. A noi resta la sagacia, la critica magari anche sfavillante dell’ogni giorno, le autocoscienze una tantum come questa a cui mi sono voluta abbandonare. I siti ne sono pieni: contributi spesso acuti e intelligenti, vere bellezze a volte, che nuotano da sole, senza possibilità di aggregarsi e di vincere alcunchè.
Non dobbiamo certo rinunciare a cercare di cambiare le nostre pratiche di educatori, ma è sempre più evidente che non basta. Dovremmo cimentarci a pensare la nostra professionalita anche per le sue potenzialità di impegno critico….

Poche ore più tardi scrivevo questa replica.

Cara Giovanna, grazie per questo appassionato intervento. Nelle molte cose che dici ci sono vari sottintesi, per noi due ovvi, visto che di questo problema del merito e della meritocrazia siamo stati a parlare al telefono fino a ieri sera a mezzanotte. Poi questa mattina mi è arrivata la lettera circolare di Tiriticco che mi ha emozionato perché affrontava direttamente una questione di cui avevo ragionato sempre nel pomeriggio di ieri con Rosanna Ghiaroni sulla didattica laboratoriale e sulla carenza delle risorse di laboratorio lamentata da alcuni docenti. Il tutto avveniva mentre le scuole stanno riaprendo e non potevo dimenticare lo stress dei primi giorni, la fatica sovrumana che i volonterosi devono produrre perché una giornata apparentemente semplice e gioiosa come il primo giorno di scuola possa realmente riuscire bene.
Sono contento che molti interventi in questo blog abbiano proprio il carattere della riflessione, come dice l’intestazione della pagina, siano cioè degli approfondimenti in cui un nuovo punto di vista illumina meglio una questione, nuovi attori hanno diritto di parola senza offendere nessuno ma contribuendo a far capire le buone ragioni che ciascuno può addurre. In particolare apprezzo la sensibilità con cui stai cercando di approfondire le implicazioni teoriche, politiche e pratiche di una visione meritocratica in educazione. Spero che continuerai ad intervenire, compatibilmente con i tuoi impegni. Per quanto mi riguarda spero di continuare ad esporre le mie idee su una questione che mi appassiona, anche in quiescenza, quella della valutazione e della selezione scolastica.
La durezza di questa crisi economica che tocca  i fondamenti della comune radice europea, il governo dei tecnici che non fa nulla per nascondere i vincoli esterni che ci condizionano e che condizioneranno la vita dei nostri figli e nipoti, la latitanza del dibattito politico così ripiegato sulle solite cose o su provocazioni parolaie prive di significato e di prospettive, rimandano sulla scuola e sui suoi operatori una responsabilità enorme, quella di resistere nella difesa della cultura, delle persone, delle diversità, dei più deboli.
Grazie.



Categorie:Cultura e scuola, Valutazione

1 reply

  1. un solo commento su tutto quanto scritto …. mia figlia Roberta di 22 anni che sta seguendo un percorso formativo come traduttrice e interprete, ha avuto occasione di visitare lo scorso mese di Marzo una università americana, beh credo che quanto da lei riportato sia superfluo e potete tutti immaginare … altro che Marte Giove o Saturno … siamo molto .. troppo lontani da quei modelli … e la cosa che più lascia frustrati è che nonostante tutto continuiamo a sfornare geni … che studiano si formano e crescono basandosi sul “nulla” che è quello che mette a disposizione loro le strutture istituzionali di questa amata patria.
    non riesco ad immaginare cosa saremo tutti noi se solo potessimo crescere ed essere formati in centri quali quelli americani … mah

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