Una vecchia intervista

Ho ritrovato una vecchia intervista che rilasciai quasi 10 anni fa durante un seminario residenziale della rete di scuole bergamasche Stresa tenutosi a Bressanone.

Mi piace raccoglierla anche qui nel mio blog tra i miei racconti e le mie riflessioni. E’ un omaggio ai miei maestri in particolare a Emma Castelnuovo che si sta avvicinando al traguardo dei 100 anni.

Bressanone 09-07-04 sera

Intervista al Prof. Raimondo Bolletta

Puoi raccontarci brevemente le caratteristiche della tua formazione soffermandoti sui fatti o sulle situazioni che hanno indirizzato le tue scelte professionali ?

Ho frequentato il liceo classico con buoni risultati soprattutto in matematica e in filosofia, per cui nella scelta dell’università ero incerto tra queste due aree ma con un interesse forte, già allora, per l’insegnamento. Qualcuno mi disse “Ma tu vuoi anche mangiare o vuoi fare il disoccupato? Capii che forse era meglio scegliere matematica a cui mi sono iscritto nel ‘67. Ho frequentato l’università durante gli anni del ‘sessantotto’, vivendone le incertezze e le difficoltà ma cogliendone anche la ricchezza delle tensioni per l’impegno civile; ne ottenni una conferma della mia propensione all’insegnamento. All’epoca, nell’università di Roma insegnavano tra gli altri due grandi maestri Lucio Lombardo Radice, un matematico umanista colto e impegnato politicamente, Bruno de Finetti grande matematico, probabilista conosciuto in tutto il mondo, mitissimo e geniale che si fece arrestare per la sua militanza nel partito radicale. Lucio ci additò come esempio già nel primo corso di algebra una docente di scuola media, Emma Castelnuovo che alla scuola media Tasso faceva cose del tutto innovative. Così durante tutto l’ultimo anno di università trovai il modo di frequentare sistematicamente le lezioni di Emma nella scuola media Tasso in uno stage attraverso il quale ho preparato la tesi di laurea. Quella tesi era basata sulle osservazioni raccolte nelle classi circa lo sviluppo della nozione di funzione nella scuola media. In quegli anni, anche grazie alla copertura accademica di Bruno de Finetti, alcune tesi ‘applicative’ dedicate alla didattica riuscirono ad ottenere il massimo della votazione e la lode, normalmente riservata a tesi ‘strettamente matematiche’. Grazie alla lode ho insegnato immediatamente, per cui già dall’1973 insegnavo matematica in un corso sperimentale. Il progetto della sperimentazione che ipotizzava una scuola secondaria di tipo unitario era stato proposto da un’altra persona che ha segnato la mia crescita professionale, il pedagogista Aldo Visalberghi. Fu lui quasi a costringermi a scrivere un libro di testo di matematica per la scuola media seguendo una impostazione interdisciplinare. Il libro era corredato da una batteria di test oggettivi, formativi e sommativi, che costituirono alla fine degli anni settanta una autentica sfida innovativa sia per le mie limitate competenze sia per il contesto didattico che nutriva molta diffidenza per la valutazione oggettiva. Seguii Visalberghi nell’82 a Villa Falconieri facendo parte del primo gruppo di docenti comandati che avviavano il funzionamento del nuovo Cede (Centro Europeo dell’Educazione) e fu in quel periodo che avendo come tutori Visalberghi, e Mario Gattullo, altro grande docimologo purtroppo prematuramente scomparso, ho conseguito il dottorato in pedagogia sperimentale realizzando una indagine sull’apprendimento della matematica alla fine della scuola media. Pubblicammo così uno dei primi rapporti organici sugli effetti di sistema prodotti da una riforma nella scuola italiana. Ho avuto molti altri maestri ma l’elenco sarebbe lungo e forse vuoi farmi altre domande.

Questa mattina hai citato Robert Musil per parlare poi di statistica, che cosa hai voluto sottolineare?

Ti confesso che ero un po’ in difficoltà durante la prima giornata del seminario; la qualità e la ricchezza dei contributi mi avevano un po’ spiazzato, riferire sugli esiti di un questionario con tabelle e numeri dopo la musica, la letteratura, la poesia, la psicanalisi non era cosa semplice nemmeno con dei bei lucidi di Powerpoint. Così mi è sembrato che la riflessione di Musil, autore che Gargani aveva più volte citato, potesse spiegare il legame e la non contraddizione tra il mio intervento e quello degli altri relatori. Musil osserva che un suicida che crede di compiere l’atto più sovranamente libero obbedisce in realtà ad una legge statistica che è in grado di prevedere su una grande popolazione, con una approssimazione matematicamente determinabile, il numero totale di suicidi in un certo giorno. Il passo di Musil, che citavo sempre ai miei studenti quando insegnavo statistica all’istituto tecnico, rende palpabile uno dei paradossi della legge empirica del caso secondo la quale un insieme di eventi casuali, assolutamente indipendenti e singolarmente impredittibili, purché molto numeroso, in realtà è del tutto prevedibile nelle sue caratteristiche complessive. Pensa al numero di incidenti mortali sulle autostrade in una domenica di agosto. Questo è ciò che per me lega il qualitativo e il quantitativo: nella scuola abbiamo a che fare sia con singoli eventi la cui complessità e ricchezza richiede la ricchezza e la complessità degli approcci conoscitivi proposti ieri ma anche fenomeni collettivi che interessano popolazioni numerosissime di soggetti che manifestano comportamenti, atteggiamenti e competenze rilevabili e studiabili con le tecniche della statistica e con un approccio empirico. Purtroppo questa coesistenza di piani di approccio non sempre è accettata e vi è il rischio di scegliere uno dei due approcci alla conoscenza in modo un po’ manicheo.

La matematica a scuola è sempre stata per molti una disciplina non facile, non motivante, tu che hai insegnato matematica cosa ne pensi?

Penso che sia sicuramente più facile insegnare discipline di cui si veda immediatamente l’applicazione diretta, discipline che appaiono utili per sé, per la propria professione, per la società. Io ho insegnato per molti anni matematica applicata, cioè statistica, calcolo delle probabilità, … sono tutti argomenti di cui i ragazzi percepiscono l’applicabilità e che quindi riescono a coinvolgere di più l’interesse e l’impegno degli studenti. Quindi ho forse avuto vita più facile dei miei colleghi che insegnavano capitoli più ‘teorici’. In realtà credo che un buon insegnamento di qualsiasi parte della matematica possa essere altrettanto interessante, coinvolgente e utile per crescere. Ma molta della matematica che viene proposta nella scuola è una specie di caricatura della matematica. Perdere ore ed ore per imparare piccole trasformazioni di simboli decontestualizzate vuol dire svolgere sì delle attività matematiche, ma non è fare matematica. Sicuramente la matematica è una disciplina che ha un forte correlato con l’estetica, con la piacevolezza, con l’interesse, ma purtroppo la matematica scolastica è in troppi casi una specie di supplizio che serve per selezionare i ragazzi più ‘intelligenti’, per stabilire un rapporto di potere perverso con le classi. Ma onestamente devo dire che non è facile insegnare bene la matematica, è più facile insegnarne le applicazioni come per alcuni anni è accaduto a me.

Vorrei che ora ci parlassi dell’attività di ricerca e dei progetti di ricerca ai quali hai collaborato…

Sono tanti, forse troppi. Ciò che accomuna i progetti a cui ho collaborato – VAMIO, FORTIC, monitoraggio CENSIS sugli apprendimenti in matematica, – sono Villa Falconieri, cioè il CEDE, attualmente INVALSI e, la centratura sulla scuola, con un interesse che pian piano si è andato focalizzando sulla valutazione, collegata all’ambito matematico scientifico, prima e ultimamente alle TIC. Il mio rapporto personale con queste ricerche, in questi anni, non è cambiato molto, nel senso che io, fin dall’inizio, quando sono andato al CEDE, ho sempre sentito forte la responsabilità di essere presente, dentro le ricerche, come insegnante, cioè come uomo di scuola che si trovava a fare anche altre cose. Ho sempre pensato che la ricerca sulla scuola fosse una ricerca specialistica sì, ma che richiedesse una forte competenza esperienziale acquisita direttamente sul campo. Io sono molto preoccupato all’idea che specialisti puri che non hanno mai visto una classe, non hanno avuto mai l’esperienza diretta di cosa significhi gestire una classe, non hanno mai fatto interagire un ragazzo con una disciplina, che tali specialisti puri possano validamente studiare e affrontare i problemi della scuola. La scuola è un mondo che ha delle caratteristiche sue peculiari, che può essere benissimo studiata da specialisti ‘esterni’, ma che, comunque, per essere ben capita richiede anche competenze dall’interno. Devi avere anche un punto di vista interno per poter studiare la scuola: io personalmente ho sempre rivendicato questo ruolo e questa funzione.

Ma il feedback da parte delle scuole rispetto alle tematiche affrontate nelle ricerche è cambiato?

Dal punto di vista istituzionale purtroppo la mia sensazione è che la vita della scuola, le scelte che si fanno sulla scuola, le grandi scelte, non tengano conto di queste ricerche, dell’indagine empirica: i risultati non servono. Spesso perché la ricerca sulla scuola è ricerca della scuola, che non ha paternità scientifica, perché il mondo accademico non le riconosce un carattere sufficientemente rigoroso. Per converso il mondo della scuola non la riconosce perché non ha la paternità del mondo accademico, quindi ancora oggi la ricerca sulla scuola è una strana cosa priva di un chiaro statuto epistemologico, che non appartiene alle discipline antropologiche, non appartiene alle discipline psicologiche, è questa strana cosa che si chiama ricerca pedagogica.

In realtà si tratta di risultati di una pluralità di apporti disciplinari, si dovrebbe parlare di ricerche interdisciplinari su problematiche che però rivestono scarsa rilevanza sociale.
Tutto il sistema Irrsae Cede Bdp ora diventato Irre Invalsi Indire risente di questa debolezza: essere fuori dalle strutture disciplinari della ricerca universitaria ed essere ‘altro’ rispetto al mondo scolastico ‘militante’

E’ un problema solo italiano questo, quale è la tua percezione in merito, dato che hai avuto esperienze anche in ambito internazionale, avendo collaborato con l’OCSE per la ricerca PISA, l’indagine internazionale sull’apprendimento dei quindicenni?

Credo che negli altri paesi, innanzitutto, ci siano Istituti di Ricerca di una consistenza e di una credibilità ormai riconosciuta e stabilizzata, che viene da un lungo lavoro, dall’esperienza che hanno accumulato. Altri paesi lavorano con maggiore specialismo, con istituti che hanno delle competenze più ristrette e definite e che operano quindi con approcci più rigorosi e scientifici.

Noi in Italia, da questo punto di vista, siamo inconsistenti, se si considera che ad esempio l’INVALSI, in cui lavoro, ogni tre anni viene riformato… Ad esempio in Olanda c’è un Istituto per gli Esami che si chiama CITO con 250 ricercatori, 200 collaboratori esterni , con un edificio enorme fornito di magazzini. E’ una cosa che funziona da anni, c’è gente che ci lavora da 10 o 20 anni, altri certamente ci lavorano da meno tempo, ma senza l’idea della precarietà, perché in Italia c’è sempre l’incertezza di rimanere incaricato o comandato nella ricerca. Si tratta di personale pro tempore, numericamente limitato e non sufficiente per garantire continuità e sviluppo alle pur numerose e costose ricerche realizzate. Quindi la ricerca pedagogica ed empirica in altri paesi è supportata da una diversa realtà organizzativa, ci sono alle spalle scelte politiche diverse, da noi non c’è una struttura che, anche quando si dispone di risultati importanti come accade per la ricerca PISA, li possa far ‘marciare’. Infatti non è sufficiente comunicare al pubblico risultati di una singola misura, devi avere una continuità di ricercatori che sui risultati riflettano e lavorino per alcuni anni, devi avere un’organizzazione che supporti l’interpretazione e lo sviluppo per seguire processi lunghi e non solo la produzione di istantanee su aspetti troppo limitati di una realtà molto complessa. Le ricerche internazionali noi le facciamo con gruppi che vengono costituiti ad hoc, senza una storia di lavoro alle spalle, che poi vengono sciolti alla pubblicazione del primo rapporto. In questi giorni dovrebbe essere definitivamente approvato il decreto per il riordino dell’Invalsi in cui qualche elemento positivo viene introdotto seppur ancora timidamente: una più forte autonomia dell’istituto e la costituzione di un organico stabile per il personale che vi dovrà lavorare.

Veniamo ora al rapporto ormai pluriennale con STRESA…che cosa ha significato nel tuo percorso professionale, quale apporto hai dato a Stresa e cosa pensi che l’esperienza con STRESA ti abbia dato?

Per certi versi STRESA è stata per me un po’ un’ancora di salvezza ed anche un elemento di continuità che in questo clima di incertezza e di precarietà delle istituzioni in cui ho lavorato, mi ha dato la sensazione che le ricerche, le numerose indagini realizzate potessero essere correlate con scelte effettive. Stresa mi ha offerto la possibilità di operare concretamente su una rete di scuole e vedere direttamente gli effetti che i risultati delle indagini potevano produrre.

Un secondo aspetto, non di poco conto, è che l’ambiente STRESA è un ambiente di ricerca vero da due punti di vista, quello empirico, cioè con forte propensione alla raccolta di informazioni, di dati, alla messa a punto di strumenti, quindi con una attitudine molto legata alla ricerca scientifica, e quello della riflessione teorica. STRESA, con tutti i progetti che ha attivato, è sicuramente un contesto in cui si riflette, si pensa e si producono ipotesi, non è stata un’esperienza rimasta sempre uguale in dieci anni, ma si fanno cose che evolvono e che evolvono rispetto a ipotesi precise, a ipotesi che si confrontano con la realtà e continuamente vengono meglio messe a punto: questo ritengo sia un valore importante per me, cioè un elemento positivo anche dal mio punto di vista, per le cose che ho imparato, ho maturato.

E tuo contributo a Stresa quale è stato, visto che sei stato un elemento costante in questi anni?

Questo dovrebbero dirlo gli altri…a volte Giovanna Barzanò mi ricorda cose che io ho detto un anno o due anni prima, di cui io avevo perso assolutamente memoria nel senso che lei sostiene che quelle cose sono importanti o sono state importanti nelle scelte di STRESA … io penso di aver contribuito anche in modo inconsapevole all’elaborazione collettiva, poiché molte cose si discutono pian piano, ci si confronta nel gruppo anche in modo informale, si partecipa insomma ad una riflessione collettiva in cui ciascuno mette un tassello, ma non sai quanto quel tassello abbia influito.

Visto che siamo in un contesto progettuale, quali progetti per il suo futuro?

I progetti professionali non dipendono da me. Per il prossimo anno dovrò forse lavorare in uno studio pilota sui nuovi Esami di Stato, l’altra cosa nella quale sarò impegnato è uno studio sugli atteggiamenti dei genitori rispetto alla flessibilità oraria della nuova Riforma e poi concluderò il monitoraggio del FORTIC, che è la ricerca che si occupa dei problemi dell’uso in campo didattico delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione e poi citando Battisti……”qualcosa di sicuro io farò”.

Vuoi aggiungere qualcosa che ci possa aiutare a conoscerti meglio?

Ho avuto la fortuna di poter coltivare molti altri interessi la cucina, la fotografia, l’ascolto della musica, la multimedialità digitale …. Insomma sono pronto per fare il pensionato.

È la tua parte creativa?

Sì è un bricolage curioso e, quando possibile, intelligente .. ma cerco di essere ugualmente creativo e ‘ludico’ anche quando lavoro nelle ricerche per l’Invalsi e per Stresa.

www.retestresa.it

Tra i miei progetti non c’era quello di fare il preside, è il bello della vita che sa sempre sorprendere.

 



Categorie:Cultura e scuola, E. Castelnuovo, Riflessioni personali

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9 replies

  1. dopo aver letto tutto d’un fiato questo tuo articolo …. avverto qualcosa che sale dal profondo del cuore … è un semplice “grazie” … grazie perchè se oggi sono quel che sono in parte ..anche se in minima parte …lo devo anche a te.
    Dico questo perchè attraverso questa lettura ho avuto la netta convinzione che … in quei 5 anni trascorsi insieme … sicuramente devi aver avuto l’abilità e la destrezza di trasmettermi … tutta questa tua vitalità…questo tuo estro… questa tua abilità a seguire 1000 cose contemporaneamente!
    Non so per quale stranissima ragione in questa tua intervista, seppur vecchia di 10 anni, mi ci sono ritrovato. abbiamo vissuto percorsi nettamente diversi, radicalmente distanti, affrontando argomenti, interessi, e studi distanti fra loro; ciò nonostante è come se leggendoti abbia letto dentro di me o attraversato un sentiero simile, seppur diverso come contesto.
    Evidentemente in quei lontani 5 anni di scuola superiore sperimentale, che per altro hai citato nella tua intervista, hai rappresentato per me non solo il Prof. rimpiscatole che alitava sul collo, e metteva “becco” su ogni cosa che noi studenti facevamo, ma cosa più importante hai saputo, sicuramente incoscaimente, trasmettermi, e non credo solo a me, quei piccoli frammenti della tua personalità che si sono trasferiti in me, in un periodo formativo molto importante, frammenti che hanno aiutato a mettere a fuoco e migliorare parte del mio carattare.
    Riconosco a te il merito di aver contribuito, in quegli anni, a formare e migliorare il mio carattere, e far si che sia poi, negli anni, diventato quello che sono.
    E’ un grazie questo che ti porto a distanza di anni, e forse anche in ritardo, ma forse detto ora lo si può anche coronare con una profonda gratitudine e riconoscenza.
    Non so se sono stato in grado di esprimere quello che avevo e che ancora ho dentro, in una delle pieghe del mio animo, ma confido nella tua sconfinata capacità di interpretazione e di abilità di saper leggere “fra le rghe”, e sono certo che saprai comprendere anche le tante sfumature che ci sono dentro questo “GRAZIE”!.

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  2. Grazie Franco, mi hai commosso. Sei sempre esagerato. Sono io a ringraziare sia per queste tue belle parole sia per quanto io ho preso da ciascuno di voi negli anni del Ruiz. Qualcuno ha detto che ciascuno di noi è la somma di tutti coloro che ha incontrato, conosciuto, amato, odiato. Un abbraccio forte.

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    • aveva forse ragione l’indimenticabile Totò che nella famosa poesia “A livella” sosteneva che la morte è una livella e aggiungo che anche la vita è tale …
      stammi bene caro Prof. … che dici vogliamo provare ad organizzare una pizza fra pochi intimi cercando questa volta di coinvolgere anche Franco Cipriano?

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