Cuori induriti

In questo momento di cuori induriti vorrei raccontarvi quello che mi è capitato sabato scorso, una di quelle occasioni rare in cui senti di essere proprio fortunato: esci dall’avvitamento depressivo e pessimistico di giorni in cui ti sembra che la tua società vada a rotoli e che la speranza stia morendo.

Venerdì sera ero stato su fino a tardi seguendo Propagandalive sulla 7. Avevo seguito con commozione il servizio sull’assassinio del giovane sindacalista nero Soumayla Sacko a San Ferdinando in Calabria e la splendida intervista di Aboubakar Soumahoro che aveva fatto seguito al suo appassionato comizio durante la manifestazione dei braccianti per le vie deserte di San Ferdinando.

La mia commozione si univa alla vergogna che provavo di essere parte di una società che consente non solo omicidi a bruciapelo, questi saranno sempre inevitabili, ma il perpetuarsi nel tempo di uno sfruttamento così radicale e cinico di esseri umani giovani e disperati, la costruzione e il mantenimento di bidonville a due passi da quartieri che pretendono di apparire civili e ricchi. La mia rabbia non era diretta solo contro le tante mafie e i tanti interessi economici inconfessabili e violenti ma anche contro la mia sinistra che in parte ha amministrato il potere anche da quelle parti contro le istituzioni di questo Stato che fanno finta di non vedere e di non sapere e consentono violazioni della legge così plateali e gravi. Solo l’intervista di Aboubakar con il suo splendido italiano finemente pronunciato, con le sue idee semplici e colte, con la sua determinazione fiera e serena mi aveva dato motivi per sperare.

Quelle immagini avevano popolato un sonno inquieto insieme alla preoccupazione di dover la mattina dopo assolvere ad un impegno semplice ma anch’esso emozionante: fare il servizio fotografico alle cresime di 15 detenute a Rebibbia. Me lo aveva chiesto Sandro il cappellano che ci onora della sua lunga amicizia. Ho fatto nella mia vita centinaia di migliaia di foto, uso l’attuale macchina fotografica da una decina d’anni tuttavia i dubbi sulle tecniche, sugli automatismi, sulla priorità dei diaframmi, sull’uso del flash, nascondevano una inquietudine più profonda che quella circostanza provocava in me.

Così, mentre nel traffico mi recavo da mia cognata che come volontaria mi avrebbe accompagnato per entrare nel carcere, continuavo a pensare a Salvini che era andato a San Ferdinando ad infiammare i cuori dell’intolleranza e della paura lasciando un po’ furtivamente il dibattito parlamentare sulla fiducia al governo: mi tornava in mente l’immagine di lui che in punta di piedi e rapidamente lascia l’aula e il modo suadente e rassicurante con cui si rivolge ai cittadini inferociti che lo circondano ed inneggiano al di là di una cancellata. Mi ha ricordato certe rappresentazione del Maligno di qualche pittura o di qualche mosaico apocalittico medioevale. Il suo volto da feroce saladino mi è sembrato decisamente diabolico.

Così, immerso in questi foschi pensieri arrivo all’ingresso del carcere e passo i controlli, nel percorrere i viali di quella che è una piccola città fortificata, chiedo a mia cognata un po’ malignamente: ma perché queste detenute si cresimano? Non lo so, so solo che hanno fatto un percorso di conversione e di catechesi di almeno 2 anni … quindi hanno fatto cose gravi, penso nel mio cuore indurito.

Arrivato nel corridoio antistante la cappella, due detenute fumavano nervosamente e facevano commenti reciproci sulla mise, sul vestito, sul trucco, sui capelli … l’eccitazione festosa era palpabile. Nella cappella le altre erano sedute già nelle panche disposte secondo quanto previsto della cerimonia con Sandro seduto nel mezzo sui gradini del presbiterio che mi presenta come fotografo. Approfitto per studiare delle inquadrature e comincio ad osservare i volti di ciascuna e vedo la tensione dell’attesa dei familiari che verranno per questa festa. Arriva il vescovo che si siede al centro per conversare, si vede che anche lui è emozionato e il mestiere di parroco della periferia romana non basta con una umanità così particolare. Finalmente arrivano i familiari ed inizia il mio lavoro: abbracci, lacrime, timidezze, bambini piccolissimi che rimangono aggrappati alle madri, giovani splendenti che guardano da lontano la madre con un misto di vergogna e di fierezza. Una madre rompe il ghiaccio mi si avvicina e mi chiede timidamente: poi me la fa una foto con i miei figli? Certamente, anche subito. Così rapidamente raggiunge i due figli che si erano seduti in un angolo e scatto le foto. Grazie.

La cerimonia inizia e l’eccitazione rumorosa dei saluti si trasforma in raccolta partecipazione orchestrata da Sandro che guarda negli occhi di ciascuno. Canti, litanie, gesti e colori intensi con un crescendo di emozioni che trova il suo culmine nell’unzione da parte del vescovo. Nell’omelia il vescovo aveva parlato del nostro cuore che spesso si stringe e si indurisce per la paura e l’odio e a volte si dilata e si riempie di felicità quando si ama. Lì, in quel momento tutti i nostri cuori si dilatavano per la commozione, per l’affetto dei familiari che erano venuti a trovare le proprie madri, per le detenute che si ritrovavano con altre nelle speranza di una vita libera. L’ultimo canto, dedicato alla madonna quasi gridato all’unisono si è interrotto alla prima strofa, la cerimonia era durata forse troppo. Le detenute hanno chiesto di proseguire nel canto con la seconda strofa, poi ho capito il perché: la seconda strofa conteneva una supplica per la riconquista della libertà.

Ma in pochi minuti ci siamo ricordati di essere in un carcere, gli ospiti sono stati fatti uscire e le detenute sono uscite in fila sorvegliate da giovani guardie.

Una detenuta mi chiede, viene alla nostra festa? Certamente, potremo fare altre foto. La festa si è svolta nel giardino della direzione, un clima sereno ed amichevole, il mio cuore era leggero e dilatato, ero allegro ed ottimista.

Poi tornando a casa mi sono chiesto se non peccavo di buonismo e di superficiale emotività. Ho pensato che se è così se sono ancora sensibile alla tenerezza degli ultimi che non ce la fanno e chiedono aiuto vuol dire che il demone del salvinismo non mi ha ancora contagiato, sì perché la malapianta dell’invidia, della violenza del forte verso il debole, dell’egoismo del ricco e del potente anche grazie a una meravigliosa cerchia di amici e famigliari mi difende.

Si perché il pericolo del salvinismo non è politico è più terribile perché corrode e corrompe le coscienze. Ci dissecca il cuore e ci ottenebra la mente.



Categorie:Riflessioni personali

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4 replies

  1. grazie di queste testimonianze dell’umanita` che resiste, raimondo.

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  2. Commozione, emozione, risveglio del cuore, attenzione al prossimo; un regalo, un aiuto inatteso di un grande amico: grazie Raimondo.

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