Al mercato

In queste ore, concesse dal capo dello Stato alle forze politiche per formulare proposte operative circa la formazione del nuovo governo, le trattative raccontate dalla stampa e dai media sembrano quelle di un souk in cui si usa il baratto per effettuare gli scambi.

Tu dai una cosa a me, io do una cosa a te.

Chi, preso dall’ansia di rimanere escluso dai baratti, svende quello che ha è quel Matteo il religioso che è disposto a cedere qualsiasi cosa pur di non perdere il piatto di lenticchie del ministero dell’Interno. Chi si atteggia a padrone della piazza è quel Luigino che ha dilapidato in poco tempo il suo patrimonio lasciatogli dal padre e vorrebbe imporre le sue condizioni per scambiare come pietre preziose chincaglierie di poco valore. Nicola sembra spaesato perché la merce che ha rischia di essere svenduta anche da altri suoi aiutanti che lui non controlla a sufficienza.

Fuor da metafora, il caos continua a regnare anche se il Presidente della Repubblica avrebbe voluto esercitare una pressione più forte della volta precedente per riportare tutti all’ordine. L’aver scelto come chiavi interpretative della situazione l’immagine della trappola, l’ambizione personale, la paura mi aiuta molto a capire le dinamiche mutevoli della cronaca giornaliera.

Avrei forse dovuto inserire anche la voce memoria, la memoria corta dei cittadini. Molti comportamenti dei protagonisti si fondano sulla certezza che il cittadino elettore dimentica rapidamente, in particolare rimuove tutto ciò che non corrisponde alle sue convinzioni profonde o alle sue paure. Ad esempio la gente dimentica che chi ora parteggia per un governo PD M5S solo ieri spergiurava che mai avrebbe governato con i grillini (parlo di Mattia il gradasso), la gente dimentica le offese gravi che reciprocamente si sono scambiati coloro che adesso sono pressati perché convolino a giuste nozze. La gente dimentica da chi è stata aperta la crisi e per quali ragioni per cui vedrebbe come esito possibile anche una conferma dell’alleanza giallo verde addirittura con Luigino primo ministro (questa è la svendita di Matteo il religioso pur di non uscire dalla trappola che il vecchio marpione suo ex capo gli ha teso costringendolo a tornare a casa e ad abbassare le ali). **

L’ultima sorpresa è di ieri sera come salatino all’aperitivo tra Nicola e Luigino. Conte non si tocca, è un elevato, questa è una condizione imprescindibile. Salatino avvelenato offerto a Nicola il quale passa la nottata a discutere con i suoi e con Mattia il gradasso sul da farsi: rifiuto delle condizioni con conseguente riedizione del governo giallo verde o peggio ancora con elezioni subito in una situazione pericolosamente incerta dopo che la contaminazione di una nottata d’amore è stata consumata?

Che impiccio per il povero Nicola per la prima volta alle prese con la politica nazionale in cui ci si può scottare e di brutto. Chi mi legge sa che nutro una simpatia per Nicola Zingaretti che considero una persona perbene. Ci sono aspetti di questa vicenda che somigliano paurosamente alla fase finale della segreteria di Bersani:

  • la scelta di varare il governo Monti e
  • il fallimento della elezione di Prodi a Capo dello Stato.

Nel 2011 un governo di centro destra si sfaldò per l’indisponibilità della Lega a varare misure economiche dure per far fronte al rischio molto concreto di default finanziario con lo spread a 528 punti. Bersani ritenne che le elezioni immediate fossero un grave pericolo per cui accettò un governo del presidente affidato a tecnici non di area che provvedessero a gestire le lacrime e il sangue allora necessari. Lo appoggiò alleandosi con la destra di Berlusconi e approvando tutti i provvedimenti che Monti propose in quell’anno.

Ora, dopo il fallimento di una maggioranza raccogliticcia, una maggioranza che sommava i vantaggi per il popolo promessi dalle due forze contraenti, si tratta di scegliere se andare subito alle elezioni o prolungare la legislatura con un governo dei 5 stelle appoggiato dal partito democratico. Zingaretti ripete in parte la strada scelta da Bersani accettando per responsabilità il coinvolgimento in un governo che dovrà necessariamente compiere scelte impopolari. Rispetto a 8 anni fa ora la situazione non è così grave dal punto di vista economico, anzi i mercati finanziari mostrano benevolenza e comprensione rispetto alla crisi in atto per cui non è possibile chiedere un governo tecnico, un nuovo Monti che faccia il lavoro sporco dell’operazione chirurgica e lasci le forze politiche senza problemi di consenso. Lo stesso Presidente della Repubblica non può percorrere la strada di Napolitano per altre due differenze: nel 2011 mancava solo un anno alla fine della legislatura per cui un governo del presidente poteva avere un tempo limitato e relativamente breve mentre ora occorrerebbe avviare un governo di salute pubblica per un arco di 4 anni, inoltre nel 2011 c’era virtualmente un programma di governo già scritto nella lettera di intenti che BCE, UE e BM avevano indirizzato all’Italia con le raccomandazioni per uscire dal pericolo di default.

Quando Zingaretti ha annunciato che la risoluzione di trattare con i 5S per la costituzione di un nuovo governo era stata presa all’unanimità mi sono ricordato di quella adottata parimenti per l’elezione del capo dello stato in cui tutto il partito all’unanimità decise di puntare su Prodi. Poche ore più tardi la candidatura era impallinata da un centinaio di franchi tiratori e il sindaco di Firenze si affrettò nel giro di pochi minuti dalla diffusione dell’esito della votazione che oramai la candidatura di Prodi era caduta. Non mi dilungo per illustrare le analogie con le dinamiche odierne in cui il senatore di Rignano fa e disfa, polemizza, propone come se fosse lui a condurre la trattativa con il Capo dello Stato e con i cinque stelle.

Insomma Zingaretti ha imboccato una strada difficile e forse paga amaramente ora lo scarso impegno del partito nel gestire una opposizione puntuale e concreta che non fosse solo l’agitazione dello spauracchio del fascismo incombente. Nel giugno scorso, prima dell’estate, quando la prospettiva della fine del governo gialloverde si profilava, avevo scritto un post dedicato a Roma in cui sostenevo:

Ma se il PD facesse ciò per Roma avrebbe un metodo di lavoro applicabile all’intero paese. Non ci si deve limitare ai tweeter, alle brevi dichiarazioni per i telegiornali né alle comparsate nelle incessanti discussioni televisive. Occorrono documenti semplici, puntuali, ufficiali, di facili lettura che identificano in modo chiaro la posizione del partito su ogni questione aperta. Ad esempio se domani si andasse alle elezioni cosa direbbe il PD circa i provvedimenti da prendere in autunno sulla finanziaria? Facile dire ora che è un bel problema per il governo giallo verde ma se Di Maio e Salvini mollassero cosa farebbe il PD, non dire cose generiche ma cose concrete e precise.

Paradossalmente la debolezza del governo della città di Roma e del governo della nazione è una tossina anche per il PD che continua ad illudersi di poter godere di una rendita di posizione perché questi sgovernano senza ritegno

Così Zingaretti lasci stare i problemi di immagine, in fondo Conte è più un problema per di Maio che per lui e dica concretamente quali sono i suoi punti irrinunciabili sulla finanziaria, se e come vorrebbe riformare il fisco, se e come vuole intervenire sugli investimenti … come vuol gestire l’immigrazione … specifichi i provvedimenti per i primi 100 giorni. Lasci ai 5 Stelle la responsabilità di recedere dalla trattativa sui punti programmatici e non sulla figura di Conte. E se Luigino ha aperto anche l’altro forno e cade nella trappola dell’ambizione personale di diventare presidente del consiglio lo lasci andare al suo destino, lasci che gli italiani assumano le loro responsabilità, se i borghesi moderati preferiranno la bestia che ci possiamo fare?

Intanto prenda atto che la Von der Leyen non ha i capelli turchini e che prima o poi dovremo pronunciare questa parola che fa tanto paura: PATRIMONIALE.

** questo è un gustoso elenco copiato da Facebook a firma di Davide Giacalone delle giravolte a cui stiamo assistendo in queste ore.

L’arco spendaccionale

Sembrano tutti incoerenti e voltagabbana, ma è solo un’impressione superficiale. C’è una coerenza occulta che va considerata.
Movimento 5 Stesse e Lega annunciavano perentori e supponenti che avrebbero governato cinque anni, ora sostengono che non si poteva andare avanti un minuto di più, a un quinto del cammino. Salvini ha fatto cadere il governo, ma ora dice che sarebbe bene rinascesse. I pentastellati non volevano che cadesse, ora rifuggono la resurrezione. Il Pd era per elezioni anticipate e dialogo con l’elettorato pentascappato, poi hanno preso a parlare con i dirigenti pentamiracolati per non essere troppo smaccatamente alleati con Salvini, circa le urne. Renzi escludeva anche solo di parlare con un grillino, ora vuol governarci. Zingaretti aveva già un’intesa con i frinenti, ma mai prima delle elezioni e mai con Di Maio, ora scopre che l’intesa serve proprio per non andare a votare e che Di Maio non è un problema. Non è. Berlusconi sostiene che il governo uscente è d’avventurieri, invisi alle istituzioni europee, sicché vuole allearsi con chi in quel governo rappresentava il massimo di avventurismo antieuropeo. Sono troppo schifiltoso o son tutti vagamente incoerenti?
Come si dice in politichese: non è questo il problema. Supporre che gli astanti si distraggano dal loro meraviglioso gioco, riponendo attenzione su futili questioni di merito e contenuto, è sciocco. Anche perché su quel piano l’accordo c’è. Per intenderci: taluni preferiscono dire che occorre arrivarci con il dialogo, altri prediligono il peto, ma la sostanza è che si dovrebbero avere più soldi pubblici da distribuire. A buffo, naturalmente. Ciascuno è contro la beneficienza assistenzialista fatta dagli altri, ma sol perché ne ha una propria da proporre e finanziare. A buffo, naturalmente. Tutti convergono contro aumenti di prelievi fiscali (che aumentano magicamente lo stesso), ma escludono turpi pratiche di tagli alla spesa. Ancora a buffo, quindi. È il vasto arco spendaccionale, archiviato il vetusto costituzionale.
Fra il buffo e il commovente vi è la pattuglia dispersa e frammentata di coloro, gli orfani non ereditieri della tradizione risorgimentale, che furono e in sogno vorrebbero tornare a essere, i quali si guardano fra il frastornato e il cagnesco, domandandosi l’un l’altro con quale delle parti sia bene schierarsi e, poffarbacco, guarda un po’ dove son finiti gli altri. Gli unici a non vedere lo splendido e variopinto arco spendaccionale. Così ha perso rappresentanza l’Italia che una cosa la sa: le toccherà pagare.

Davide Giacalone
www.davidegiacalone.it
@DavideGiac

Pubblicato da Formiche



Categorie:crisi 2019, Politica

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  1. Appello a Zingaretti | Raimondo Bolletta

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